"RETROFUTURO"
di Vittorio Curtoni
(Shake)
"ROBOT - rivista di fantascienza"
diretta da Vittorio Curtoni
n. 20 - anno II - novembre '77
(Armenia Editore)
"ROBOT" n. 41
diretta da Vittorio Curtoni
(Solid Books 2003)
http://www.fantascienza.com/robot/

CAPPELLETTO INTRODUTTIVO (in brodo...)

2001: PINGUINI NELLO SPAZIO
(notte tra il 2000 e il 2001)

i pinguini lanciano nello spazio una nuova pagina:
decimo ospite del sito-rivista "i pinguini nel sottoscala - letteratura dell'inquietudine e dell'imperfezione", Vittorio Curtoni ci accompagna con alcuni suoi incipit inediti in questo passaggio di fine anno (secolo... millennio!).
La forma scelta da Vittorio per farci compagnia è quella dell'incipit: creatura incompiuta e dunque imperfetta, pienamente rispondente ad una delle idee che hanno dato vita alla rivista.
Ciascun frammento è preceduto da un'introduzione, abitudine ormai consueta dell'autore.
Siamo contentissimi di poter ospitare Vittorio Curtoni nella nostra parte di ragnatela.
Secondo il nostro modesto parere l'autore ha una grande capacità di creare storie e immagini "poetiche" (chi ha letto i suoi racconti sa cosa intendiamo) e le sue "spiegazioni" introduttive sono non solo indispensabili alla lettura delle sue opere (per capirne la genesi e il contesto) ma anche interessantissime per conoscere le opinioni di uno scrittore e le alterne vicende di un genere letterario (la fantascienza, non solo in italia).
La sua disponibilità al confronto e alla spiegazione riguardante i suoi parti letterari ci sembra indice di umanità e modestia non comune a molti. La maggior parte degli autori tende a mitizzare la figura dello scrittore e quindi la propria posizione giocando a "fare" lo scrittore misterioso.
Dopo il piccolo cappelletto in brodo vi invitiamo a gustare questi antipastini, in barba al galateo culinario...
(i pinguini nel sottoscala)


"ROBOT - antologia di fantascienza"
suppl. al n. 22 - 1977
"La Sindrome Lunare e altre storie" di Vittorio Curtoni
(Armenia Editore)

"DOVE STIAMO VOLANDO"
di Vittorio Curtoni
(La Tribuna Piacenza -
Galassia 174 settembre 1972)
"CIAO FUTURO"
di Vittorio Curtoni
(Urania Mondadori febbraio 2001)
"CARMILLA" - febbraio 2001
contiene un intervento di Vittorio Curtoni
(R&D)


C'E' QUEL CHE C'E'
Frammenti inediti (in rigoroso disordine)
di VITTORIO CURTONI


Io sono uno che oscilla spesso tra estremi in forte opposizione, in base alle situazioni e agli umori del momento. Posso passare dall'allegria mattoide alla cupa depressione in un amen, tanto per fare un esempio, il che lascia talora sconcertato chi mi vive accanto, soprattutto mia moglie. Anche se devo dire che col passare degli anni la mia stabilità media è in aumento.
Questa diciamo bipolarità (mi pare che il termine clinico sia quello) si applica anche alla mia scrittura: certe volte mi alzo da letto con un'idea in testa e mi metto al lavoro e nel giro di qualche giorno ho completato il racconto (in alcuni casi ho scritto una storia bell'e pronta per la stampa in una sola mattinata); altre volte invece parto con un'idea più o meno coagulata, più o meno approssimativa (non sono di quelli che prima di cominciare a scrivere preparano scalette millimetriche), poi la pigrizia ha il sopravvento e pianto lì tutto, anche nei casi in cui la trama continua a stuzzicarmi. Sicché mi ritrovo con un discreto pacchetto di frammenti, che sono poi tutti incipit di racconti mai conclusi, e quel che segue è un'antologia di questi incipit che a tutt'oggi pochi occhi oltre ai miei hanno letto. I Signori Pinguini dicono che è una bella idea; io di preciso non so. Comunque volevano qualcosa di mio, e questo è quel che posso offrire. Chiedo venia a chi dovesse trovare disgustoso il tutto: prendetevela coi Pinguini.



FRAMMENTO NUMERO UNO: CLONI

Questa è una storia che avevo iniziato a scrivere anni fa. L'idea globale è ancora ben presente nella mia testa, e il risultato finale dovrebbe essere, credo, un romanzo breve. Mi ero messo all'opera dopo averne parlato con Piergiorgio Nicolazzini, che all'epoca lavorava ancora per l'Editrice Nord e stava preparando il volumone natalizio sui cloni. Eravamo in estate. Quando Piergiorgio rientrò dalle ferie, mi chiese se avessi finito il racconto, e dovetti rispondergli di no. Ci rimase male, caro ragazzo. E' che io di fronte ai progetti impegnativi divento di un pigro pazzesco.
L'io narrante è un investigatore del futuro spedito su un pianeta colonizzato dagli umani a indagare su una misteriosa strage: qualcuno ha chiuso in una stanza di una villa un'anziana signora molto ricca, molto potente, assieme a tutti i cloni della signora stessa e ai cloni dei suoi figli, cloni numerosissimi e di età variabile, poi ha appiccato il fuoco e ha sterminato tutti. Perché? E' questo il fulcro della storia, e mi venisse un accidente se ve lo spiegherò. Ah, Cain è un clone dell'investigatore, più giovane dell'originale, ed è anche il suo amante: un tenero rapporto omosessuale tra un uomo e la sua copia prodotta dall'ingegneria genetica. Mi pareva, mi pare ancora un concetto intrigante.


Reiter dice che il livello di carbonizzazione dei corpi era tanto alto da rendere quasi impossibile l'identificazione delle singole vittime. Stamattina, appena sono arrivato, voleva mostrarmi gli olo della stanza e dei resti come sono stati ritrovati, ma ho rifiutato. Con tutta la cortesia del caso, s'intende. Non credo gli faccia molto piacere l'idea di un sostegno investigativo dal pianeta madre, e su questo come minimo siamo perfettamente d'accordo: nemmeno io vorrei essere qui. Gli ho fatto presente che risento ancora del lag di ricostruzione molecolare, e che comunque sono del tutto certo della perfetta efficienza della sua squadra. Penso che questo gli abbia restituito un minimo di sicurezza.
In ogni caso, le modalità dell'incendio e le identità delle vittime sono già state stabilite. Io sono qui per integrare dati e portarli a un tutto coerente, non per occuparmi dei singoli dettagli, di per sé insignificanti.
Sappiamo chi sono le vittime; sappiamo che si è trattato di un incendio doloso: al di là di questo, per me tutto il resto è superfluo. Io devo indagare le motivazioni, non le tecniche, i modi concreti. Qualcuno lo ha fatto perché aveva un buon motivo per farlo. E' il chi e il perché che devo scoprire, non altro.
E il lag è forte. Non è una scusa, è una verità lampante. L'ho letto negli occhi di Cain quando ci siamo rimaterializzati sulla piattaforma. "Ho come un senso di nausea" mi ha detto: il che è per lui una dichiarazione davvero enorme, ai limiti del compromettente. Gli ho stretto la mano per fargli riprendere contatto con la realtà del qui e ora.
Ci hanno assegnato una buona casa, credo. Grandi spazi aperti su questa immensa successione di prati collinari che vediamo dal lato ovest, su in salita verso



FRAMMENTO NUMERO DUE: TERRAFORMING SIMULATO

Anche questo dovrebbe diventare un romanzo breve, e anche questo è piuttosto complesso, e a essere sincero non so ancora come potrei concluderlo. E' un po' una cosa in stile "omicidio nella stanza chiusa a chiave": ci sono questi tizi che stanno eseguendo un progetto di ricerca top secret, un terraforming (o una terraformazione, se preferite) in realtà virtuale, col tempo che viene accelerato o decelerato secondo i casi per studiare le meccaniche del processo; e un bel giorno trovano, all'interno della loro realtà virtuale, il cadavere vero di una donna. Chi è costei? Da dove viene? Perché è lì? Come ha fatto a entrare? E chi lo sa? Io no di certo. Però secondo me potrebbe saltarci fuori qualcosa di buono.


"Signori" dice Friedman, guardandosi attorno "abbiamo un problema."

Ora Stills lo fissa dall'altro lato della scrivania, che è scura. Vero mogano, probabilmente. Ninnoli dall'aria innocua occupano l'ampia distesa del piano, però sembrano d'oro, e devono essere costati una fortuna: una clessidra, un mappamondo incastrato in un'intelaiatura a losanga, una zucca di Halloween, un atleta con le braccia alzate. Tutto piccolo, minuscolo; un universo miniaturizzato che senza dubbio non si ribellerà mai ai desideri del signore e padrone.
Il mondo di un entomologo, pensa Stills, che dirige un mondo di uomini. Di primo acchito, Friedman non gli piace. Ha sempre odiato la gente che tenta di ridurre le cose alle proprie meschine dimensioni. Infatti il megaschermo alle sue spalle è spento, come i due monitor sistemati ai lati dell'ufficio, a destra e sinistra, a ridosso delle pareti. Del resto, Stills non ha alcun desiderio di vedere le immagini che potrebbero essergli presentate lì.
Ha sonno, è stanco. Ha anche un'enorme voglia di scopare Marielle, e comunque vorrebbe essere altrove. Da qualunque altra parte, tranne che lì.
"Abbiamo un problema" gli dice Friedman.
Stills annuisce. Non è una rivelazione troppo sconvolgente. A immaginare tanto era già arrivato da solo. Sta zitto e aspetta che sia l'altro a scoprire le carte. Non esiste tattica migliore.
"Lei sa qualcosa di realtà virtuale?" gli chiede Friedman.
"Quel che sanno tutti. Cazzate. A dire il vero, l'età dei giochi me la sono lasciata alle spalle da un pezzo."
"Qui non stiamo giocando." Friedman è secco. Irsuto. Abbassa la testa in un cenno d'assenso che non ha motivo d'essere.
"Posso essere franco? Lo sospettavo. Mi hanno tirato giù dal letto per farmi correre qui. E' ovvio che non si tratta di un gioco."
Friedman sospira. Ha esattamente l'aria del Gesù Cristo voglioso di un nuovo calice di fiele. Il bicchiere della staffa. Le finestre, attorno a lui, sono tutte chiuse. Il sibilo discreto dell'aria condizionata riempie ogni silenzio, rende le cose forse un po' meno imbarazzanti. Ma la musica del martirio muto non è per questo meno dissonante.
"Non sono autorizzato a entrare nei particolari. Dovrà accontentarsi di una panoramica generale piuttosto approssimativa. Mi spiace."
Per sottolineare il suo rammarico, apre un cassetto della scrivania, afferra un paio d'occhiali con la montatura di metallo, molto leggera, e li inforca con l'atteggiamento indolente di chi non ha nulla da perdere. Le lenti sembrano affumicate; sono grigie, solcate da venature blu. Lo fanno apparire ancora più distante, e distaccato, e superiore. Dio onnipotente, o il suo vicario in Terra.
Stills sta cominciando a incazzarsi. "Perché ha fatto svegliare proprio me, professore? Non era meglio chiamare la CIA? Qualcuno che si porta in giro i visti di sicurezza appiccicati al culo?"
Sorprendente: Friedman scoppia a ridere. Di gusto, come un ragazzino che abbia appena sentito la barzelletta sporca dell'anno. "La CIA?" singhiozza, tra esplosioni di risate e colpi di tosse che devono qualcosa a un'asma antica, radicata. "Ma lei lo sa cosa pagherebbero quelli per mettere piede qui dentro? Per favore."
Fuori sta piovendo, o così pare dai ticchettii discreti che risuonano contro il metallo, dietro i vetri delle finestre. Giusto, era previsto. Un'altra giornata di merda.

Lake, Anderson e Young sono ancora in simulazione. Riuniti nell'abitacolo tempopressurizzato. Il viso del cadavere, che tutti e tre hanno visto, pulsa debolmente alla periferia dei loro nervi ottici. Così incongruo, così reale. Non hanno avuto il coraggio di abbandonarlo nella galleria. Non lo hanno trascinato dentro, questo no; ma sono rimasti su ZeroWorld. Pareva l'unica cosa adatta da fare, l'unico estremo omaggio da rendere.
Anderson raccoglie una birra dal frigorifero. Non vuole bere, però appoggia le mani attorno al vetro della bottiglia, per rubarle il velo di umidità. Gli accade spesso di sentirsi come disseccato, inaridito, quando è in simulazione, e quello di certo non è il migliore dei giorni per le sue avventure nella realtà virtuale.
Lake guarda l'orologio. "Tra un po', io stacco. Tanto credo che per oggi non si combinerà niente. L'acceleratore è in funzione?"
Anderson si gira, scuote la testa. "No. Hanno disattivato il timer. Per forza. Se no..."
Young si gratta il naso. Gli tornano alla mente diverse scene di vecchi film dell'orrore, la robaccia antica su nastro che lui continua a preferire alle olomatrici. Una in particolare: il finale di La vergine di cera, una delle opere più rare del suo idolo, Roger Corman. Quando la ragazza, sotto gli occhi stupefatti di Jack Nicholson, si decompone a un ritmo inarrestabile, si riduce a un ammasso di ossa. Divorata dalla sabbia del tempo.



FRAMMENTO NUMERO TRE: INDIANI

Questo ha parecchi anni sulle spalle. Doveva (o dovrebbe) essere un racconto dell'orrore: l'amministrazione della mia città, Piacenza, invita una tribù di pellerossa specializzata nel riciclaggio di... Ah no, questo non ve lo dico. Poi arriva qualcuno e mi frega l'idea. Sono mica scemo.


Gli era parso tutto molto assurdo, all'inizio. Le bandiere, gli striscioni, la banda, il sindaco in pompa magna. Non che fosse andato alla cerimonia in piazza: non partecipava mai a cose del genere, per principio. Odiava l'aria provinciale di quelle manifestazioni; la fuggiva come, presumibilmente, il demonio fugge l'acqua santa; ma nella morbida intimità della casa, dopo cena, con niente da fare, niente a cui pensare, mentre sua moglie sistemava i piatti nella lavastoviglie, si era sintonizzato sul canale della televisione locale (La televisione più becera e reazionaria dell'universo, come amava ripetere a se stesso, se non c'era qualcun altro a dargli retta) e aveva visto tutto in replay.
Quale grandioso squallore. Quale sublime miseria. Le viscere della provincia italiana aperte, sventrate, esposte al ludibrio col loro inenarrabile contenuto di sangue e feci: il palco sotto il palazzo gotico, nella piazza centrale; il gruppo folk in un angolo, pronto a esplodere nelle sue nenie da festa di paese; il tavolo dei rinfreschi, spazzato dal vento, concupito dagli occhi di tutti; il sindaco che terminava il suo discorso e stringeva le mani al capo indiano (gliele stringeva tutte e due, per rendere più significativo il gesto, per immortalare il trattato di pace fra gli uomini delle pianure e la tribù venuta da chissà dove); l'intervistatore imbecille che ripeteva il rosario letargico delle sue domande, buone per ogni giorno del mese, per ogni mese dell'anno.
In parole povere, la solita merda.
"Micio, ma cosa ci fanno quelli lì qui da noi?" aveva urlato sua moglie dalla cucina. Naturalmente, avevano due televisori; naturalmente, tutti e due a colori; e naturalmente, anche se erano separati da un paio di pareti, Annamaria stava seguendo lo stesso programma, e chiedeva la sua opinione.
"E che cazzo vuoi che ne sappia?" aveva strillato lui, abbassando sul tavolo il bicchiere di birra. "Il sindaco lo hai sentito anche tu, no? Sono indiani. Indiani d'America. Io pellerossa, tu viso pallido, me squaw, roba del genere. Hanno un nuovo sistema di riciclaggio."
Un tintinnio di vetri. Probabilmente, lei aveva sistemato un bicchiere nella lavastoviglie. "Ma cosa riciclano?"
"E io cosa ne so?" In definitiva, fra tutti i discorsi delle autorità, l'unico punto oscuro era proprio quello. "Scorie industriali, materiali radioattivi, schiume di detersivi... Gesù, non lo so."
E lei, imprevedibilmente, si era presentata sulla soglia del soggiorno, con un piatto in mano, e i grandi occhi azzurri nascosti sotto le palpebre abbassate a metà, e gli aveva chiesto: "Ma cosa vuoi che ne sappiano di riciclaggio, gli indiani?"
E lui si era sentito inchiodato come una farfalla trafitta da un entomologo, come uno scarabeo catturato da una rete; e senza una parola, disfatto dalla consapevolezza della propria ignoranza, aveva annuito. Poi aveva schiacciato il pulsante del telecomando per cambiare canale.
Più tardi, aveva scopato sua moglie con la furia di chi si guarda attorno in cerca dei segni che gli indichino la fine del mondo.



FRAMMENTO NUMERO QUATTRO: MIA MOGLIE

Incipit recentissimo, di quest'anno (2000 A.D.). E prima o poi questo racconto lo finirò. E' dedicato a e incentrato su mia moglie, Lucia, che vive con me da più di venticinque anni, e della quale vorrei narrare ciò che so. Ciò che ho capito. Con contorno di ologrammi e macchine per trasfusioni di personalità. E' lei la donna che si guarda bambina, in una fotografia che esiste davvero in casa nostra, su un tavolino a fianco del divano. Un giorno l'ho fissata a lungo e mi è venuto in mente il plot. Adoro le illuminazioni mistiche.


Piano, ecco, sì, così. Mai afferrare la cornice con troppa forza. Non ci vuole niente a risvegliare i fantasmi.
Lei guarda la fotografia, e si ritrova bambina: stupefatta. Davanti al mondo, alle cose. Sta sorridendo. No, è imbronciata. L'abito le arriva sopra le ginocchia. Tiene le dita delle mani intrecciate, in un minuscolo gesto di autodifesa che sembra tanto spontaneo. Tanto innocente. Ha scarpe bianche, e calze bianche. Ha strani fiocchi, incredibili, obsoleti, sulle due frange di capelli ai lati della testa. E l'automobile alle sue spalle è un dinosauro.
Com'ero piccola, pensa.
Si guarda. Si studia. E' passato un secolo. Sono passate tre vite. E' passata l'intera storia del mondo.
Ma la paura di essere abbandonata, quella no. Mai. E' il suo tesoro più prezioso, e nessuno glielo toglierà.

"Io non volevo lasciarti" le dice l'ologramma di suo padre. Che ha cinquant'anni, ed è l'uomo cordiale, affidabile, che lei ha sempre amato. "Non volevo morire. Insomma cazzo, non l'ho fatto apposta!"
C'è un alone verdastro che parte dalla base del cerchio bianco e sale su, su, tutt'attorno alla figura di suo padre. Una zona frastagliata di aria troppo densa di colori. Innaturale. Lei prova a immaginare di infilare una mano in quell'area di confine, e rabbrividisce: si svelerebbe l'inganno. Si inarcherebbero, come serpenti di mare irritati dal passaggio di troppe superpetroliere, le squame della realtà. E poi.
Accende una sigaretta, tira due boccate di corsa, esala il fumo. Il vizio non lo ha mai perso. Fissa suo padre. "E poi", dice "quando eri vivo tu non dicevi le parolacce."
"Oh cazzo." Suo padre ha un attacco di riso. "Stava cominciando a insegnarmele tuo marito. Dov'è? Non lo vedo?"
Lei sbuffa, annaspa sul fumo. "E' fuori. Aveva da fare. Tra un po' torna.



FRAMMENTI NUMERO CINQUE E SEI: MY OWN PRIVATE UNIVERSE

In questi due incipit corre la stessa idea: un universo parallelo, magari simulato in realtà virtuale, nel quale la logica del vizio e della virtù è capovolta. Essendo io uno che ama mangiare, bere, fumare, insomma disordinare in tutti i modi possibili, trovo la prospettiva estremamente gratificante. Non appena la realtà virtuale diventerà una cosa seria, mi dedicherò con scrupolo professionale alla creazione dei miei universi goderecci.


CINQUE:

Il medico lo visitò con estrema attenzione. Era un professionista, e si vedeva. Uno al quale non sfugge niente.
"Senta, ma lei quanta cioccolata beve al giorno? E bella calda, intendo. Bollente. Una buona torcibudella." La prescrizione doveva essere molto divertente, perché il medico si mise a ridere.
"Ah, no, guardi, la cioccolata non la vuole proprio vedere" disse la moglie del paziente, sorseggiando il bourbon che le aveva prescritto il suo ginecologo. "Gli faccia bere acqua minerale, o acqua del rubinetto, ma la cioccolata..."
"Ah, be', se uno vuole rovinarsi il fegato da solo..."
Il medico andò a sciacquarsi le mani sotto il cognacrubinetto del lavandino. Tanto per gradire, e per rendere omaggio, bevve un sorso; ma in quei quartieri popolari si era ben lontani dal Napoleon delle zone residenziali.
Poi tornò in soggiorno.
"Mia cara signora, non vorrei sembrare troppo catastrofico" disse, abbassando la voce. Il paziente riposava nella stanza accanto, ormai quasi assopito, dopo le iniezioni di Polieccitante che il medico gli aveva fatto. "Ma suo marito ha il fegato a pezzi. Come mai? Non beve cioccolata? E a whisky, come andiamo?


SEI:

Martedì. 13.00
A pranzo con Maurice. Carissimo amico, uomo dal potente intelletto, ma è magro da fare spavento. Non mangia. Di fronte al maestoso piatto di lasagne alla bolognese che l'ossequiente cameriere gli ha portato, Maurice ondeggia in un'esitazione penosa.
"E dai, almeno assaggia" gli dico, affondando la forchetta nel mare di pasta verde affogata tra ragù e besciamella. "Cristo, guarda che sei su una brutta strada."
Devo avere alzato un poco la voce, perché qualche cliente, ai tavoli vicini, gira la testa verso noi: omoni sani, floridi e rubizzi. Gente dai centoventi chili in su. Classici, classicissimi ritratti della salute.
Mi schiarisco la gola con tono imperioso. Non mi va che qualcuno, chiunque sia, ficchi il naso nelle mie conversazioni private. Le teste si ritraggono di scatto, tornano a chinarsi su maccheroni e panzerotti e baccalà e arrosti misti. Dio, un po' di decenza.
"Non ho appetito" mi confida, in punta di voce, Maurice. Come se non me ne fossi già accorto.
"Con gli antipasti te la sei cavata mica male" lo incoraggio. Bisogna sempre spronarli, questi tipi anemici. "Dacci sotto con le lasagne. E vedi di far fuori quel maledetto bottiglione, per favore. Il vino s'inacidisce in fretta."
Praticamente, non ha ancora assaggiato un goccio di barbera doc. Mi sorge un dubbio. "Preferivi il bianco?"
Lui scuote la testa. Pensoso, depresso. "E' che sono..."
Un silenzio imbarazzato. Ma dove siamo, in confessionale?
"Sei?" sollecito.
"Sono astemio." Detto a voce bassissima, tremula.
Il troppo è troppo.
"Ah, no, mi spiace" ruggisco maestoso. Suppongo che per dare il giusto effetto drammatico alla scena dovrei alzarmi di scatto, rovesciare all'indietro la sedia, schiaffeggiarlo o qualcosa del genere. Suppongo. Il punto è che quando pesi centosessantadue chili, certe cose non ti riescono troppo facili.
Così, senza nemmeno sollevare gli occhi, a bocca schifosamente piena, gli sussurro: "Chi è la testa di cazzo che ti ha inserito nella mia programmazione? Non tollero gli astemi. Non li ammetto alla mia tavola. Via, sciò. Sparisci. Vai a farti dare una rinfrescata. Io ti voglio bene, ma c'è un limite a tutto."
E lui scompare. Sia ringraziata la provvidenza del computer.
Bisogna pur tracciarla una linea da qualche parte, no?
Gli astemi, mai. Mai.

Mercoledì. 16.00
Sei appena arrivato in ufficio, e vengono già a romperti le palle. Che universo di merda.
Ma c'è una riunione sindacale. Non ci si può sottrarre. Questioni importanti. Decisive. E' in gioco la mia dignità di dirigente di sei o sette (ho perso il conto. Qualcuno mi aiuti) multinazionali.
Il sindacato chiama. E io accorro.
Le proposte del consiglio d'amministrazione sono assolutamente inaccettabili.
"Stimati colleghi" ululo, girando lo sguardo truce lungo il tavolo delle trattative, "i padroni stanno tentando di portare avanti la solita mossa reazionaria, camuffata da mano tesa!"
Cenni d'assenso. Sono tutti dalla mia parte. E vorrei vedere. Sono tutti miei cloni. Una mente, un corpo, un pensiero. E' il mio motto. Il nostro motto.
"Pretendere di ridurre l'orario di lavoro dai tre quarti d'ora attuali a una semplice mezz'ora, con un raddoppio dello stipendio netto e un incremento pensionistico del trenta per cento l'anno, significa svilire in maniera irrimediabile la nostra professionalità! Cosa siamo? Pagliacci? Buffoni? Servi del potere? Marionette?"
Questa parola ha sempre un effetto micidiale. A nessuno dei miei dieci io seduti a questa tavola piace immaginare di essere manovrato da fili che scendono dall'alto. La libertà prima di tutto. L'integrità professionale. Cose che non si comperano a chili, e nemmeno a etti, al mercatino delle pulci.
Vigorosi mormorii in perfetta assonanza con le mie rimostranze. A noi non ci fregano.
"Allora è deciso. Sciopero duro di diciassette minuti. Domani. Li piegheremo!"
Anche questa è fatta.



FRAMMENTO NUMERO SETTE: RISVEGLIO

Un altro romanzo breve abortito. Una donna che si risveglia dopo anni dall'ibernazione, su una stazione spaziale. C'è stato un grave incidente nel laboratorio di ricerca nel quale lavorava. Suo marito è morto. La donna è stata attaccata da un virus sconosciuto, e così la hanno ibernata in attesa di trovare una cura. Comincerà a vivere una situazione famigliare leggermente incasinata: un suocero chiaramente invaghito di lei, un bambino che non è suo figlio ma il clone giovanissimo del marito defunto... Eccetera.
Sì, lo so, ho l'ossessione dei cloni. Li trovo un concetto terribilmente affascinante.

Il ritorno della coscienza è un processo lento, graduale. Millimetrico. Parte dall'alto, dalla testa, e scende giù come un fiume. Un fiume invasivo, un torrente in piena: sfocerà in un delta? O in un estuario? E ci saranno ombre, al tramonto? Uccelli sulle rive del mio corpo?
Posso cominciare a guardarmi. Una parte di me è già viva. Si muove. Le palpebre si muovono, in un arco solenne, a tracciare le volte del cielo, le ampie arcate di metallo che sono il soffitto di questa stanza. Asettiche, fredde. Come me. Tutto è così freddo, qui dentro. L'apocalisse del gelo. Portatemi un pinguino, è mio fratello.
Io non respiro. Non ho il minimo controllo cosciente sull'alzarsi e l'abbassarsi del mio petto. Quindi, non respiro. Eppure, nessuno si affanna attorno a me con maschere a ossigeno. Sono abbandonata alle volubili decisioni di una macchina, alle sue inclinazioni del momento; e se preferisse abbandonarmi? Se non volesse collaborare? Non sarei più sola di adesso, ma la mia fine sarebbe certa. Matematica. Un'equazione sbagliata, e via, puf, sei svanita dall'esistenza. Incognita non risolta, ma eliminata.
Perché sto pensando queste cose? E sono proprio miei, questi pensieri? Non saranno del gelo?
Mi scruto. Il mio io nudo è disteso su un tavolo d'acciaio grigio come l'odore dei miei pensieri. Non posso, per il momento, girare la testa. Non sono in grado di modificare o selezionare l'input di dati. Vedo quello che riesco a vedere, e basta. Ma mi ricordo di me. Di questo, per lo meno, ho consapevolezza.
Un arco sottile, costellato di spie luminose, e quadranti, e spazi vuoti, procede lento sulla lunghezza del mio corpo. Si ferma, e fa qualcosa al freddo. Lo uccide. Adesso, ecco, è all'altezza dei miei seni. Si blocca. Fa quello che deve fare.
Meraviglioso, sublime ponte tecnologico. Mi stai restituendo alla vita. Io ti amo, per questo. Ti amerò sempre. Te lo prometto. Non ci separeranno mai.
E' il tuo parto che mi restituisce alla vita. E io te ne sono grata.



FRAMMENTO NUMERO OTTO: MISTERO

Di questo non ricordo proprio nulla. Non so quando l'ho scritto né quale storia volessi raccontare. Mah. Se sta sul mio hard disk, in mezzo ai miei racconti, deve essere mio, ma non chiedetemi di più.

Com'è volato il tempo, amore mio.
E sì, lo so, vent'anni fa mi sarei lasciato tagliare le palle, se solo avessi corso il rischio di dire una fesseria del genere, di abbandonarmi alle spiagge dorate, ma tanto insipide, tanto sciroppose, del luogo comune; eppure oggi, vedi, in questa grande retrospettiva del passato, in questo colossale technicolor della memoria, trovo che il luogo comune abbia un suo sapore persino aspro, se davvero lo sai gustare sino in fondo.
La splendida banalità dei discorsi di tutti i giorni.
Perché credimi, il tempo è volato sul serio, e né tu né io siamo riusciti ad acchiapparlo. E' scappato, perso per sempre. Uscito dalla nostra gabbia. Come quel pappagallino che avevamo anni fa.
Ti guardo, sdraiata sul divano. Dormi. E' presto, ma dormi già. La stanchezza, le ansie. Lo stress. Nessuno te lo ha mai detto, ma non puoi gestire il mondo da sola. Era una delle cose che avrei voluto insegnarti. Non ce l'ho fatta. Colpa mia.
Dormi, e io me ne sto qui davanti al nostro maxischermo, con le cuffie sulle orecchie, per non disturbare il tuo sonno. Mezza parete di video. Dolby surround. Chi se ne frega.
Tu dormi, e quindi non parli. Sogni, forse. Spero. Spero soprattutto che i sogni ti siano clementi. Sei così dolce, nel sonno, con le mani strette a pugno (ah, quelle sì! Sempre), e i capelli sul cuscino. Il viso non troppo rilassato, solo un poco più del normale; e nel sonno, immagino, rivivrai gli epici conflitti del tuo ufficio, le corse della giornata, le parole di rassicurazione raccontate a tua madre al videotelefono (quando lei non vuole mai mostrarsi, perché ha paura di farsi vedere, ma tu, tu devi mandarle la tua immagine, se no si preoccupa, se no teme chissà cosa), le discussioni con me su quel vestito che credevi mi piacesse e invece non mi piace, non mi è mai piaciuto, non lo posso sopportare...
Tra un po', appena sarà finito il film, dovrò svegliarti. Prima preparerò il letto, sprimaccerò i cuscini, abbasserò le lussuose tapparelle elettriche delle nostre finestre da soffitto; adatterò a te, nei limiti del possibile, l'ambiente; e ti sveglierò.
Tu camminerai come in trance dalla cucina alla camera da letto, ti butterai sul materasso, mormorerai la buonanotte, mi stringerai per un attimo la mano. E non ti sarai lavata i denti. Non hai mai il tempo nemmeno per quello. Cristo.
Sul mobile dietro la mia testa, dalla mia parte del letto, ci sarà la bizzarra pianta rosa che hai comperato da qualche giorno. Mi inquieta. Mi ricorda troppe storie di invasione aliena, di creature che strisciano nella notte per produrre cloni di esseri umani, per impadronirsi del nostro pianeta. E così, forse, domattina io mi sveglierò e non sarò più io, ma qualcosa d'altro, una creatura venuta dallo spazio profondo senza anima, senza sentimenti, senza più amore per te...
No, in effetti non ho poi molta paura di quella pianta. Non troppa. Quello che mi chiedo, e quello che vorrei chiedere a te: perché le piante? Perché le ami tanto? Perché le curi così?
Io credo di saperlo. Io forse lo so. Perché sono vive, ma non si muovono, e non parlano, non fanno rimostranze, non ti caricano di sensi di colpa. Tu le curi, e loro vivono. Non hanno bisogno di rassicurazioni, di analisi, di buoni sentimenti. Ti dimostrano di volerti bene semplicemente vivendo, e tu non chiedi altro.
Nel tuo giusto, sacrosanto trionfo della vita. Costi quello che costi.



E PER FINIRE IN GLORIA, UN MICRORACCONTO COMPLETO:
LE TRAPPOLE DELLA POESIA


Ebbene sì, questo non è un frammento, ma un raccontino piccino picciò compiuto. L'ho scritto attorno a Natale del 1999, per rispondere alla dolce richiesta di un amico che fa l'incisore, Roberto Tonelli (è bravissimo), e ogni anno a Natale pubblica alcuni microlibri, le Briciole, con un testo minimo corredato da una sua incisione che lo illustra. Ora esiste una Briciola del sottoscritto con queste righe e la deliziosa incisione di Roberto. Ne sono smodatamente orgoglioso.
Il Paolo Maurizio coprotagonista (con me) della storia è il Bottigelli, bancario per necessità e poeta per vocazione. Uno dei più grandi poeti dei nostri giorni, al quale manca solo la fama che gli spetterebbe ampiamente. Mondo bastardo.



Un bel dì passeggiavo con Paolo Maurizio in una stradina piacentina. Una di quelle viuzze strette strette che celano sempre l'inghippo. Sapete com'è.
Comunque, egli è poeta, io sono prosatore; sicché si procedeva a forza di figure retoriche sparate a tutto spiano. E bla bla bla. Finché, a un certo punto, Paolo Maurizio non scompare, inghiottito dal selciato.
Mi chino a guardare, e da sotto mi giunge un flebile gemito: "Aiuto, Vittorio! Sono caduto in una metafora!"
Era proprio sprofondato fino al collo. "Una metafora poetica o prosastica?" gli strillo.
"Poetica, poetica" risponde lui, con un filo di voce.
Estraggo dal giubbotto la mia corda per Metafore Poetiche e gliela lancio. Inutile: non arriva nemmeno lontanamente alle sue mani.
"No" gli strillo, "tu sei caduto in un'iperbole!"
E corro a chiamare i Vigili del Linguaggio Retorico.
Tanto poi, è chiaro, l'intervento lo pagherà lui.



Vittorio Curtoni (S. Pietro in Cerro, 1949) Già dalla Laurea in lettere dimostra di avere intenzioni fantascientifiche, visto che i suoi sforzi si dirigono verso "La Fantascienza in Italia dal 1952 ad oggi" (è il 1973). La tesi viene successivamente pubblicata dalla casa editrice Nord con il titolo "Le Frontiere dell'Ignoto" (vincitore nel 1978, a Bruxelles, del premio come miglior saggio europeo sulla fantascienza). E' considerato unanimamente uno dei più grandi artefici della diffusione italiana della Fantascienza, grazie soprattutto alla sua attività di fondatore e curatore di riviste e fanzine negli anni '60 e '70 ("Nuovi Orizzonti" con Luigi Naviglio, "Galassia" e "Science Fiction Book Club" con Gianni Montanari, "Robot", "Aliens", "Omicron", "La rivista di Isaac Asimov") nonchè curatore di collane librarie ("I libri della paura" con Giuseppe Lippi, "Horror" per la casa editrice Armenia e "Fantascienza" per la Sperling & Kupfer Editori).
Traduce dall'inglese (finora ha macinato circa 300 volumi per svariate case editrici) ed è abile scrittore. Ha pubblicato racconti su riviste specializzate (ricordiamo anche l'antologia personale "La Sindrome Lunare e altre Storie" per Armenia Editore, 1978), il romanzo "Dove stiamo volando" (La Tribuna Editrice, 1972) ed il saggio "Guida alla Fantascienza" in collaborazione con Giuseppe Lippi (Gammalibri, 1978). Attualmente scrive su quotidiani ("Il giorno" e "Libertà") e mensili ("Piacentini", "Delos").
Alcuni suoi racconti sono stati riproposti di recente nell'antologia "Retrofuturo" (Shake Edizioni Underground, 1999). Del febbraio 2001 è l'antologia "Ciao Futuro", nella collana Urania della Mondadori.
Attualmente è di nuovo direttore di Robot che viene ripubblicato da Solid Books partendo dal numero 41 (http://www.fantascienza.com/robot/).
Tra le sue più recenti traduzioni si segnalano in particolare "Acqua, luce e gas" di Matt Ruff (Fanucci Editore), "Le sorelle Marx" di Barry Maitland (Meridiano Zero) e i volumi "Le Presenze Invisibili" che raccolgono i racconti di Philip K. Dick (Arnoldo Mondadori).




"I MONDI DI DELOS"
a cura di Franco Forte e Ubik
contiene un racconto di Vittorio Curtoni
(GE Garden Editoriale)
"DRACULA 2000"
a cura di Valerio Evangelisti
contiene un racconto di Vittorio Curtoni
(I Libri dell''Altritalia)

"STRANI GIORNI"
a cura di Franco Forte e Giuseppe Lippi
contiene un racconto di Vittoiro Curtoni
(Mondadori)


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