Scheda Racconti Alcune opinioni sui suoi scritti Articoli Manifesti e Copertine |
I pensieri sono in perfetto silenzio.
Nel momento stesso in cui si manifestano,
il loro silenzio appare imperfetto.
(come appare un mio pensiero)
Ogni apparire è imperfetto: esso nasconde
l'essere...
Soltanto l'apparire... è appena vivibile.
(Dell'Imperfezione - Algirdas Julien Greimas)
...emerge una caratteristica paradossale
della comunicazione...
Non esistono sistemi semiotici tanto potenti
e così univocamente stabili e condivisi da
consentire di disvelarsi totalmente e senza
ambiguità... Dobbiamo dunque ammettere che
l'intenzione comunicativa, in ogni caso,
non riesce a superare totalmente l'incomunicabilità...
anche la scelta di non comunicare... trova
un suo limite nella costrizione... di dover
esplicitare questa intenzione, assumendo
la forma di atto di comunicazione...
(Elementi di psicologia della comunicazione
- Luigi Anolli e Rita Ciceri)
Mauro Smocovich (1966). Scrittore.
Ha pubblicato "L'Angelo Curioso/Imperfetto
Silenzio", Noubs, 1997:
due raccolte di racconti che spaziano
tra
la letteratura di genere con le prefazioni
di Carlo Lucarelli.
Alcuni suoi racconti si trovano sul sito
de "La Pergamena Virtuale".
Ha sceneggiato lo spettacolo multivisivo
della DTF Inc. "L'Angelo Imperfetto" tenutosi
a Camerino durante la manifestazione "Camerino
Photographs 2000".
Ha collaborato con le riviste "Virus" e "Moov". Insieme a Vittorio Spasic ha curato "Fabula Rasa" programma
radiofonico di letteratura e non solo per
Radio Città. E' curatore del sito di Carlo Lucarelli
(http://carlolucarelli.supereva.it).
La porta cigolò e aprì una ferita chiara
nella stanza. Una lama di luce scivolò nel
cubo compatto e nero del buio.
Apparve.
Non era né un vagito né un pianto. Un conato
o un ricordo. Rughe o sorrisi non aveva.
In silenzio si ritrasse lasciandomi racchiuso
tra le lenzuola di sonno impastato.
Era lo spettro dei pensieri che visita la
notte dei dormienti.
Impercettibile, la bava del ragno tesseva
la tela.
I filamenti organici si disponevano secondo
un disegno logico e programmato.
L'intricata griglia attendeva la preda.
Tra le pareti, invece, ronzava tenace il
pensiero dell'uomo. Nell'intento di uscire
all'aperto, sbatteva insistentemente contro
i vetri appannati dalla stanchezza. In testa
vibravano i timpani. Un fastidioso solletico
perseguitava l'interno dell'orecchio. Una
gran voglia di grattarsi il cervello.
Terminato il lavoro, il ragno era andato
a rincantucciarsi al suo posto, all'angolo
del vetro. La pazienza era la sua migliore
qualità.
L'uomo si alzò dalla sedia e si diresse verso
la finestra. Il sole era fuori e contrastava
con l'intimo grigiore. Quella mosca non gradiva
il silenzio.
Bzzzzzz, bzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzz,
bzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzz.
Ad un tratto, l'uomo notò la ragnatela. Si
avvicinò alla labirintica opera e, nel posare
gli occhi su di essa, il pensiero vi cadde.
Improvvisamente, il ragno uscì dal suo nascondiglio,
si diresse in fretta verso l'animale imprigionato,
vi girò incessantemente attorno con una destrezza
maniacale: ogni giro, un filamento che intrappolava
l'insetto.
Un battere d'ali rallentato, trattenuto,
fermato, bloccato, un batuffolo di bava opaco,
statico.
Il ragno aveva inoculato il veleno in un
pensiero senza più pretese di volo.
Il cadavere di un sogno.
L'aracnide si nutrì dei suoi succhi organici.
Budella fredde di lucertola. Liquido dolciastro.
Mi diverto a masticare lentamente. Schiocco
e schiaccio coi molari.
Cadenza ripetitiva. Costante. Ripetitiva.
Siedo al tuo giaciglio e osservo. Fresca
la bocca piagata. Nuda la schiena contratta.
Premuta, tra vertebre e filo di luna, la
pelle si tira. Fino in basso accarezza le
curve. Il sesso si scalda. Il tempo si dilata.
Saetta il sangue nelle cavità naturali: intrecci
di vita ansimante.
Dormi, stringendo il lenzuolo e respiri pensieri
salmastri. Drappi neri avvolgono i muscoli
a tratti, scopri i fasci nodosi della carne,
le parti tènere da accarezzare.
Contrazione ripetitiva. Costante. Ripetitiva.
Tutta la notte ti penso.
Ti accorgerai di me e sarai desiderio.
"Apri la porta al tuo papà."
Le nocche della mano toccano il legno un
paio di volte. Il rumore è leggero e veloce
ma rimbomba nell'eco di due boati. Nella
testa del bambino.
"Apri la porta, prendiamo due pizze
e guardiamo la tv da buoni amici." La
voce è supplichevole. La maniglia gira lentamente.
"Non devi chiuderti a chiave, tesoro.
Sono il tuo papà."
Papà...
Il bambino fa per convincersi, in fondo è
suo padre... si muove verso la serratura
e scorre davanti allo specchio del bagno.
L'immagine è un attimo.
Striscia sul vetro che la rimanda agli occhi
del piccolo.
È un colore.
Il rosso sul suo viso gonfio.
È un odore di narici otturate in fili di
muco.
Un sapore dolciastro sulla bocca dolore.
Una macchia di pensiero e saliva. Capillari
rotti e pelle che scoppia.
Il bambino nello specchio non sembra lui.
L'uomo della porta non sembra papà.
"Vuoi aprire la porta? Sto perdendo
la pazienza."
La voce s'è fatta più dura.
Il bambino apre la bocca. La parola esce
prima del pensiero:
"No." Intravede quel bambino macchiato
nello specchio rispondere per lui. Si morde
le labbra riaprendo una ferita. Il sapore
lo fa tremare. No, papà, no.
Al di là del legno, un respiro trattenuto.
All'improvviso una violenta spallata gonfia
la porta minacciosa. La voce è urlata, pesante,
biascicata nell'alcool serale. Arriva alle
orecchie del bambino come un'ennesima sberla:
"Allora adesso sfondo la porta e ti
fracasso la testa nel cesso!"
Il bambino è rannicchiato in un angolo. Tra
la ceramica bianca. Un bianco sporco, che
non riflette.
Lontano dalla porta.
Lontano dallo specchio.
Pioveva, la sera che son morto. Ho illuminato
l'angolo buio di un vicolo con sprazzi di
lucidi conati.
Colava a macchie giallastre tra le crepe
dei mattoni, e qualche piantina cercava di
vivere a ciuffi, tra le pietre e i miei sputi.
Un gorgoglìo di tombino a rapire la mia essenza...
Il vuoto mi ha accompagnato a casa a braccetto
e, stesomi sul letto, mi ha chiesto di aspettare
domani.
Ho aspettato tra le lenzuola accartocciate
sudate di freddo.
Gli occhi in attesa di posarsi.
Le orecchie in un ronzio pulsante respiro.
All'alba ho tranquillizzato i tremori con
un sorso al sapor di boccamara.
Era mia intenzione mantenere il cuore sempre
giovane e allegro: fu così che decisi di
metterlo sotto spirito.
Lo affogai in sostanze alcoliche.
Ora, quello che successe...
Voglio dire... le cose andarono esattamente
al contrario dei miei propositi e, probabilmente
per qualche reazione chimica particolare,
a contatto con l'alcool, il mio cuore appassì.
Il tubero non divenne fiore.
È così che sono invecchiato.
All'inizio ho avuto difficoltà a sincronizzare
il movimento delle braccia, poi l'aria mi
è stata amica. Ho aperto le ali all'atmosfera
ed ho alzato la testa per sentire il vento
sul viso.
Mi nascondo e riappaio tra le nubi, filastrocche
di pensieri vaporosi. Scorre alla mia vista
la terra girando lentamente lontano.
Voglio scaldarmi al sole, palla di fuoco,
accecante potenza.
Voglio illuminarmi nel petto.
Vado.
La sfera spavalda, vibrante nel cielo perduto
all'orizzonte, avvolge il mio sguardo e mi
riscalda. Sempre più vicino. Sempre più vicino.
Il segreto del fuoco si scioglie sulla mia
pelle. Sudore di cera mi scorre sulle braccia
nude. Un bruciore tremendo alle estremità.
Fiamme feroci a lingue schioccanti divampano
e fanno strage di piume. Il sangue putrido
mi scivola in gola. Si aprono le vene, la
pelle si piaga, i capelli carbonizzano e
precipito sfrigolando di lacrime.
L'impatto nell'acqua è improvviso. Giù, in
fondo nel freddo, il mio corpo bollente.
Ora tremo nel cuore del mare, il buio è il
mio regno.
Non sento mio padre che urla il mio nome:
Icaro.
Le parole cadevano pesanti e nere sul bianco
come il bianco cadeva sul nero e la neve
copriva di fiocchi l'asfalto.
Le parole colpivano pesanti il foglio, le
note di pianoforte grandinavano nel cervello
e tutto si tramutava in storia.
Anche la pioggia sulle mie palpebre stanche.
Guardai per un attimo la pioggerellina che
grigia appannava i vetri ed abbassai le serrande
perchè gli altri non fossero infastiditi
dalla scura notte della mia camera.
Umida.
Ero stanco di avere incubi notturni.
Escogitai un rimedio: misi il cervello a
mollo in un bicchiere, prima del sonno. Funzionava.
Niente visioni, o allucinazioni. La mattina
metodicamente lo reinserivo nella cavità.
Tutto andò bene fino a che, un mattino, svegliandomi,
non trovai che il bicchiere vuoto.
Mi diressi in cucina e chiesi ai familiari:
"Chi si è bevuto il mio cervello?"
Poi in un lampo mi tuonò il ricordo di essermi
svegliato con una gran sete, la notte.
Le parole cadevano pesanti e nere sul bianco
Seduto. Il riverbero bianco dello schermo
scava angoli bui sul mio viso. Il computer
respira in un russare lieve di movimenti
d'aria. Il programma di scrittura sembra
puntare la propria lampada da interrogatorio
dritta nei miei occhi. A chiedere ancora
una parola, ancora qualche lettera.
Niente.
Riflessioni ad ombre nebulose si adagiano
sul ronzìo sospirato della macchina e chiedono
una pausa... I gomiti poggiano sul tavolo
in attesa di un'idea, mentre pare che anche
la massa cerebrale si adagi molliccia sull'incavo
del cranio, come a voler recuperare le forze.
Il grigio labirinto di pensieri si scioglie
in liquido e gocciola negli interstizi del
teschio, tra la carne e le ossa. Scivola
su nervature, cartilagini e muscoli. Scivola
in gola in un sapore amaro di piombatura
per denti. Come fumo pesante di fuliggine
si irradia respirato nei bronchi arrivando
pastoso dalla trachea e dilata la cassa toracica
generando calore. D'improvviso è buio. Su
uno sfondo nero la macchina fa partire intrecci
floreali. Diramazioni vegetali nel mio corpo.
Vene ed arterie si riempiono di materia cerebrale
densa. Procedendo all'interno dei tubicini
naturali. Rami di albero ad incrinare il
chiarore vitreo del cielo. Nel rosso buio
della mia carne questo grigio che dilaga.
Fuoriesce, come muco caldo e vischioso percorre
lentamente l'esofago, invade le budella,
le riempie. Ho dei crampi. Con una smorfia
mi riscuoto e muovo una mano. Il mouse si
sposta.
Blik!
Di nuovo, la schermata bianca della pagina
accesa mi guarda senza troppa simpatia.
Ma ho già cominciato a muovere le dita sulla
tastiera, sorridendo.
Il ragazzo, entrato in camera, chiuse la
porta dietro di sè. Accese la luce. La porta
bianca, liscia: un rettangolo chiaro alle
sue spalle. Inquadrò il letto con lo sguardo
e si avvicinò trascinando le pantofole sul
pavimento. Si lasciò andare sulle lenzuola
e lungamente sbuffò, fissando la radio. Scelse
una cassetta dalla pila silenziosa alla sua
sinistra. La estrasse dalla custodia in bianco
e nero e la inserì nello spazio vuoto del
registratore. Raccolse le cuffiette accasciate
sulla radio cercando di non tendere il filo.
Spense la luce. Gli girava la testa, ma riuscì
ad allungare il braccio e a premere un tasto.
Partì una musica lenta, dolce di bassi e
ripetizioni pacate. Con gli occhi chiusi
seguì le note nella loro serpentina lenta
e sinuosa. La pelle trasmise un segnale al
cervello. Il petto si tese lentamente per
espandersi. C'era spazio in quella camera,
e la musica dissolse anche le pareti.
Uno spazio enorme, senza coordinate, senza
pianeti. La melodia crebbe, poi iniziò a
slittare. Pneumatico e palude, germogli di
grano nel freddo di brina e gocce d'acqua
stillate dal muschio. Ranocchie, immersioni
di luce nell'iride profondo del sole. Un
gran caldo di afa feroce si copre di nuvola
grigia silente. Lucertole nere sui muri e
le crepe nell'edera ridono con denti di fango
e la lingua rossa di fuoco e di morbida carne
nel cuore trafitta di sangue e tristezza,
morte e ricordi. La luna nel bosco mi guarda
dal gufo impietrito che apre le ali e gli
artigli e mostra le ossa e solo le ossa e
nient'altro di più nient'altro di più e nient'altro
di più di più e di più e di più e di più
e di più
No, nient'altro di più e si muove e sorride
e una lacrima scende poi nient'altro di più
e di più
No, nient'altro di più nel gonfiore di questa
bolla di grassi pensieri, ricordi odoranti
di spazi di uccelli di strane marmitte fumanti
che specchiano in acqua contrita di sporche
pozzanghere
e nient'altro e nient'altro e nient'altro
nel grigio
nient'altro nient'altro nient'altro nel nero
e nient'altro nient'altro nient'altro
"Hai bevuto di nuovo, eh?"
Il sole. La luce.
Il ragazzo cercò di aprire gli occhi a quella
voce trafitta di luce, tagliente nelle pupille,
e scorse, nel giallo mordente della camera,
una figura di donna nella chiarezza della
porta.
Liberò le orecchie dalle cuffiette
"Hai bevuto ancora?"
Il ragazzo cercò di capire nel ronzio della
stanza illuminata e sentì di nuovo una costante
ripetizione che non era più musica
"Hai bevuto ancora?"
Tantomeno era canto.
"..."
Allora il ragazzo rispose:
"No, no, io penso proprio così."
E' la prima pubblicazione in volume di Mauro
Smocovich. Si tratta dell'edizione, dall'impaginazione
un po' insolita rispetto al libro classico,
di due raccolte di racconti che si incontrano
all'interno del volume per mezzo di un racconto
che si sviluppa a spirale. La raccolta "L'Angelo
Curioso" e' piu' legata alla tradizione
della letteratura di genere (dalla fantascienza
al noir, dal cyber al metapoliziesco). La
raccolta "Imperfetto Silenzio"
gioca con le emozioni e le sensazioni sul
filo di una scrittura e di una ricerca linguistica
che cercano di ricreare gli stati d'animo
e l'inafferrabilita' del pensiero. La raccolta
parte dal presupposto che, nell'ambito della
comunicazione, la scelta di non comunicare
trova un suo limite nella costrizione di
dover esplicitare questa intenzione assumendo
cosi' la forma di atto di comunicazione e
dal fatto che l'intenzione comunicativa,
in ogni caso, non riesce a superare totalmente
l'incomunicabilita' a causa della limitatezza
delle espressioni umane. Tenta pertanto di
tracciare un percorso attraverso, appunto,
la comunicazione dell'incomunicabilita' e
l'incomunicabilita' della comunicazione.
Cerca di usare un linguaggio che accosti
e a volte integri i cinque sensi, nell'intenzione
di trasmettere le sensazioni confuse dei
protagonisti o di percezione distorta della
presunta realta'. Le fotografie in copertina,
che richiamano perfettamente l'atmosfera
misteriosa e cupa del volume, sono di Paolo Dell'Elce e Attilio Gavini, artisti fotografi noti a livello nazionale.
I disegni all'interno del volume sono di
Mauro Smocovich. Le prefazioni sono di Carlo
Lucarelli.
"L'ANGELO CURIOSO -IMPERFETTO
SILENZIO"
Mauro Smocovich
Edizioni Noubs, 1997
Lire 12.000
Chi non conosce la letteratura di genere
e' portato a pensare che sia una strada stretta,
dai confini ben definiti e invalicabili come
il guard rail di cemento di un'autostrada.
In realta' i confini del genere, che siano
le atmosfere cupe del noir o le visioni futuriste
della fantascienza, sono virtuali e impalpabili
come le mura di un ologramma e non chiedono
altro che di essere violate e perforate da
spiriti curiosi.
Molti dei racconti de "L'Angelo Curioso",
infatti, potrebbero essere classificati come
racconti di genere. Dalla lucida follia da
serial killer di "Irritazioni",
al metapoliziesco di "Breve racconto",
alle visioni cyber di "Quando c'e' l'amore...",
fino alla fantascienza classica delle astronavi
galattiche di "Agnus Dei"... i
generi ci sono tutti. Ma come Angeli curiosi,
i racconti di Mauro Smocovich volano via,
scivolano tra le convenzioni narrative e
mutano, si trasformano come embrioni investiti
dalle radiazioni nucleari e diventano un'altra
cosa, che sta a meta' tra Scerbanenco e Lovecraft.
Diventano brevi frammenti di storie con interi
universi nascosti tra le righe. Mondi sconosciuti
ancora da immaginare, meta' oscure che soltanto
un angelo curioso come un angelo ribelle
puo' permettersi di sorvolare.
CARLO LUCARELLI
"Non si puo' dire tutto in un racconto".
E' la frase finale di un racconto di Mauro
Smocovich, una parte della quale ne costituisce
anche il titolo e, secondo me, dice molto
del suo stile e del taglio di "Imperfetto
Silenzio". Perche' quello che accomuna
tutti i frammenti di questa raccolta di racconti
e' proprio questo silenzio carico di significato,
gonfio di suoni che ronzano in sordina tra
una frase e l'altra, brevissima, spezzata,
come lasciata a meta' perche' il resto sia
da immaginare. Un silenzio come quello che
si sente quando ci si tappa le orecchie con
le mani e il silenzio non e' piu' silenzio
e basta, ma un silenzio in cui rimbombano
cose nascoste, echi di pensieri che vengono
da dentro la testa e non da fuori. Un silenzio
imperfetto, appunto.
Le cose che appaiono tra le frasi dei racconti
sono ombre e luci. Ombre cupe di "incubi
e succubi", di cadaveri di sogni, di
angosce nere in agguato, pronte ad aggredire
nei momenti di maggiore vulnerabilita', al
risveglio dal sonno, per esempio, sull'orlo
di una scogliera, di notte. Le luci, invece,
sono quelle dell'ironia, del colpo di scena
finale che illumina le ombre col lampo di
un sorriso cattivo ma forte, a meta' tra
Kafka e Buzzati.
A dimostrazione che non dire tutto, in un
racconto, a volte significa dire molto e
forse di piu'.
CARLO LUCARELLI
Carlo Lucarelli, gloria patria della letteratura
noir, presentando questa raccolta di microracconti
di Smocovich parla di "embrioni investiti
dalle radiazioni nucleari" che, geneticamente
ascrivibili a questo o a quel genere letterario
di partenza, si trasformano - si deformano,
verrebbe da dire (e l'immagine espressionista
esposta in seconda di copertina autorizza
l'uso di questo verbo) - , diventando altra
cosa: ibridi, ibride scritture, cioe', che
mescolano, confondono, riplasmano (depistando)
noir e fantascienza, giallo e grottesco surreale,
talvolta nel corpo stesso della singola narrazione,
altre volte nella giustapposizione conflittiva
tra frammenti compiuti, che prendono anche
la forma e la sostanza di grafismi à la Apollinaire
o del gioco di parole letteralizzato (come
in Spirito di contraddizione: "Era mia
intenzione mantenere il cuore sempre giovane
e allegro: fu cosi' che decisi di metterlo
sotto spirito. Lo affogai in sostanze alcoliche.
Ora, quello che successe... Voglio dire...
le cose andarono esattamente al contrario
dei miei propositi e, probabilmente per qualche
reazione chimica particolare, a contatto
con l'alcool, il mio cuore appassi'. Il tubero
non divenne fiore. E' cosi' che sono invecchiato.").
Libro da percorrere di volata dall'inizio
alla fine e dalla fine all'inizio, bifronte
e palindromico (anche l'impaginazione congiura
a questo risultato, vederlo per credere),
pescando qua e la' la suggestione riuscita,
lo scatto beffardo e spiazzante, l'invenzione
non ovvia: doni di cui l'autore e' prodigo,
anche se talvolta il manierismo e' in agguato.
(Silverio Novelli)
Probabilmente Carlo Lucarelli, entusiasta
prefatore di queste due raccolte di
mini-racconti,
esagera a parlare di Kafka, pero' l'esordiente
Mauro Smocovich ci comunica quasi sempre
un sentimento di divertito o angoscioso
spaesamento.
"Ma io non mi chiamo Massimo":
cosi' leggiamo in uno di questi frammenti
narrativi o prose poetiche, in cui
non si
sa bene se alla radio sta cantando
Battisti
o Battiato o Bennato. Smocovich gioca
inventivamente
con la lingua e deforma le parole (e
la grafica
stessa), costeggiando alcuni generi
di massa,
tra fantascienza, horror e pulp. A
volte
i suoi eccessi metaforici risultano
un po'
facili ("il cielo si apri' come
ferita
in cancrena"). La nostra nuova
narrativa
e' pero' cosi' avara di veri sperimentatori
che attendiamo con curiosita' ulteriori
prove
di Smocovich.
F.L.P.
E poi, molteplici sono i nomi di autori del
Sud che hanno gia' pubblicato vari libri
(...) o anche semplici esordienti, spesso
un po' trascurati dalla grande editoria (...).
Vorrei poi segnalare (...), e ancora l'abruzzese
Mauro Smocovich, il piceno Angelo Ferracuti
(ma a questa latitudine estrema, anche considerando
la dilatazione geografica del Sud, dobbiamo
fermarci...).
Si tratta, come si vede, di un fenomeno in
larga parte sommerso, che andrebbe documentato
con pazienza e in modo capillare, e che spesso
si esprime rapsodicamente attraverso riviste,
piccole antologie, editori locali. Resta
comunque l'impressione di una sorprendente
vitalita' letteraria (...).
THE EATERS - "HO UN AMICO PER CENA"
la cultura del cannibalismo - morsi e rimorsi
dell'essere umano poco serio e molto seriale
di Mauro Smocovich
Un fumetto che sbeffeggia i miti dell'america
attraverso il punto di vista di una famiglia
modello americana che ha una strana particolarità,
pratica il cannibalismo. Si tratta di THE
EATERS (mangiatori), che mostra il nuovo
limite del fine umorismo nero inglese. L'autore
è Peter Milligan e il disegnatore è Dean
Ormston (è sua la recente versione a fumetti
del film Il Corvo 2). Spingersi oltre senza
cadere nel cattivo gusto e criticare più
ferocemente la società americana senza farsene
accorgere, sembra un'ardua impresa: Adam
Quill, moglie, figlia e figlio, tutti mangiatori,
sì, ma di carne umana. La figlia, Cassandra,
ha delle incertezze, si innamora di ragazzotti
stupidi e molto muscolosi ed irrita spesso
la famiglia affamata che non comprende il
suo attaccamento morboso a quei corpi maschili,
quando in casa non c'è nulla da mangiare.
Un giorno, la cena bussa alla loro porta:
è Marion McCoy della Apple Pie Inc., venditore
di torta di mele (simbolo di un'america costruita
sui valori della famiglia, dell'unione fa
la forza, arrivano i nostri, all together
now) che li premia migliore famiglia americana
1995. Poi scompare sezionato nella loro cucina.
Il socio Hal Blind sospetta qualcosa e indaga
presso la famiglia, pranza con loro, trova
l'anello del socio, poi s'allontana. Cassandra
osserva: "Avremmo potuto colpirlo in
testa: lo abbiamo fatto con Mr. McCoy."
Ed il padre sull'orlo di un infarto: "Hai
perso il controllo? Si trattava solo della
cena... Non siamo come quegli sporchi assassini
là fuori che stanno trascinando la stima
del nostro paese nelle fogne." I Quill
decidono di andare a trovare Shay Chesterton
con il loro Camper. Shay è stato compagno
di sventura dei due genitori, diciotto anni
prima, quando, durante una corsa di beneficienza
con la mongolfiera, precipitarono. Di 12
persone, rimasero solo tre superstiti: Shay,
Adam e la moglie e, tratti in salvo, anche
senza provviste, pesavano più di quando erano
partiti. Gnam Gnam. Ora Shay è il Sindaco
di San Diego ed è in piena campagna elettorale.
Una situazione molto delicata. Blind (il
socio Apple-pie) segue i Quill, anche lui
ha i suoi vizi: si spalma il corpo nudo con
il ripieno della torta di mele (apple pie
filling), corrompe gli agenti con delle crostatine.
I Quill arrivano a Hopesville e scoprono
solo degrado e sporcizia. "Bè non è
giusto... Siamo il motore e il granaio del
mondo e la gente chiede l'elemosina e muore
di fame." Così Adam stermina una famiglia
di americani per sfamare i vagabondi del
quartiere. "Vedi, mentre la maggior
parte delle nazioni sono basate su una lingua,
una cultura, una religione e una disposizione
geografica comune, gli USA sono diversi...
L'america è fondata su un'idea... È tutto
quello che abbiamo..." In seguito Adam
sventa una rapina. Intervistato dirà: "Abbiamo
parlato di quanto ha da offrire questo paese
alimentarmente. Hanno masticato un po' ed
hanno deciso di cambiare le loro abitudini."
Cassandra si innamora, ma stavolta decide
di spiegare tutto al suo ragazzo muscoloso:
"Credi al paradiso? Bene, noi aiutiamo
la gente ad arrivarci prima." "È
ridicolo, lo potrebbe dire qualsiasi assassino."
"Non siamo assassini. Le anime continuano
a vivere e... ti sentivi bene a mangiare
con noi, no? ...Bè, Dio ti permetterebbe
di sentirti meglio dopo aver fatto qualcosa
di sbagliato?" e lo converte (mi diverte
la fantasia che hanno gli americani nell'elaborare
a loro piacimento l'eventuale presenza di
un dio). Tutto capitolerà quando Shay, il
sindaco, spaventato dal passato che riaffiora
e dalla presenza dei Quill in città, ricorrerà
al suo uomo di fiducia: "Non posso candidarmi
con lo slogan: "una volta ero cannibale
ma ora mi sono pentito". Così, mentre
i Quill sono raggiunti al camper dal socio
Apple pie, impazzito per aver assaggiato
il collega alla tavola dei Quill e per provare
fame di quel tipo di carne, gli uomini del
sindaco crivellano di proiettili l'intera
casa viaggiante (la politica prima di tutto),
ponendo la parola fine alla storia. Solo
Cassandra si salverà. Facendo l'autostop,
salirà sulla macchina di un ragazzo, convertita
alla cucina vegetariana: "Mi sto laureando
in fisica." le dice il ragazzo. E lei:
"Vuoi dire che sei abbastanza intelligente?"
"... Ti causa problemi?" Cassandra
ci pensa un po' sù, poi si converte anche
all'intelligenza: "No. Nessun problema."
FINE
QUATTRO CHIACCHIERE SUL CANNIBALISMO
e due
sui serial-killer:
Dice Adam Quill, capofamiglia dei "The
Eaters", ad un certo punto della
storia:
"I puritani erano dei mangiatori.
La
parola Puritano è la corruzione di
un'antica
parola aramaica che vuol dire "nutrirsi
sui fianchi del tuo servo" ed
è ben
noto che anche i cristiani erano dei
mangiatori...Cos'è
l'Eucarestia se non una recita rituale
di
una vera cena? Tutto quel parlare di
sangue
e carne... chi vogliono prendere in
giro?
Ovviamente col passare del tempo, la
verità
viene alterata e la finzione prende
il posto
dei fatti". E scrive Brian Masters,
famoso biografo, nel suo libro Jeffrey
Dahmer
- la vera storia del mostro di Milwaukee,
"Quando parliamo di cannibalismo,
occorre
ricordare che stiamo parlando di un'attività
umana, una delle pratiche antichissime
dell'uomo
che la civiltà è riuscita a sradicare.
Descrivere
un uomo che mangia gli uomini come
"bestiale"
o "inumano" è dire l'esatto
contrario
della verità, perchè ben poche altre
specie
vi si sono dedicate per tanto tempo
o altrettanto
sistematicamente". Esiste uno
stimolo
primordiale che alberga nascosto nel
cuore
della psiche umana ed è dimostrato
dai giochi
infantili. I genitori non trovano nulla
di
strano se i loro piccoli sorridono
affettuosi
in risposta a frasi come "Ti mangiooo!".
Si rendono conto che le nozioni di
mangiare
e amare nel bambino sono strettamente
legate.
È la prima fase "orale" della
sessualità.
Questa fase neonatale non è mai completamente
dimenticata, ma passa nella vita adulta
sotto
forma di frasi affettuose ("Vorrei
mangiarti
per quanto sei bello/a" ecc.),
e in
pratiche sessuali come i succhiotti,
i morsi
o il sesso orale. Nelle società civilizzate
il cannibalismo è vietato da un forte
tabù.
Ma non è stato così in passato, e ancora
non è così in alcune società diverse
dalla
nostra. I Basuto estraevano il cuore
dei
nemici uccisi e lo mangiavano immediatamente
per ereditarne il coraggio. Alcune
tribù
di tagliatori di teste mangiano o succhiano
il cervello. Jeffrey Dahmer, il cannibale
di Milwaukee, si lasciò sfuggire: "Forse
sono nato troppo tardi, forse sono
azteco".
Marino Niola in un articolo su L'Unità
a
proposito del libro Mindhunter di John
Douglas
(cacciatore di serial killer), scrive:
"Figurazione
esemplare del mostro, il serial killer
occupa
nell'immaginario contemporaneo una
posizione
estrema. ...di intelligenza superiore
alla
media, narcisista, inguaribilmente
malato
di protagonismo... Il serial killer
è tutto
questo. Ma soprattutto, egli è cannibale...
È interessante notare però come esso
riaffiori
periodicamente nella nostra cultura
soprattutto
in momenti... di smarrimento epocale,
quando
più forte si fa il bisogno di serrare
le
fila dell'identità individuale e collettiva
e più urgente è la necessità di separare
noi dagli altri, il bene dal male...
i mostri
diventano necessari per custodire l'esterno
dei confini del noi... e nessun mostro
è
più mostro di un cannibale...".
Molti
serial killer vagano per l'america,
ma anche
nella ex-unione sovietica (sono state
scoperte
intere famiglie povere e cannibali
per sopravvivenza;
per non dimenticare Chikatilo, il mostro
di Rostov). Peccato che lo stesso John
Douglas
si schiera a difesa del popolo americano
(quello "buono") e, gonfiato
dagli
stessi miti americani, alla fine di
uno dei
capitoli del libro precisa: "Ho
ribadito
spesso ai miei aiutanti che dovremmo
ispirarci
al Cavaliere solitario, il quale, dopo
aver
collaborato con la giustizia, si allontana
in silenzio" ed è favorevole alla
pena
di morte nei riguardi di questi mostri
dimenticando
che, facendoli fuori tutti, verrebbero
a
mancargli proprio gli elementi per
studiare
approfonditamente questa tendenza sociale
e per scrivere best-seller. Eliminare
le
prove di un imbarbarimento della società
non aiuterebbe a capirne le motivazioni.
Si tratterebbe di una rimozione totale
di
questo fastidioso fenomeno. Fa orrore
affrontarlo,
allora lo si mitizza. Così molti di
noi provano
orrore, ma molti altri hanno provato
simpatia
per l'Hannibal Lecter, il cannibale
creato
dalla penna di Thomas Harris, qui descritto
con le parole di Laura Grimaldi in
"Il
giallo e il nero scrivere suspense":
"Profondamente, irritabilmente
crudele,
ma anche geniale, accorto... quando
promette
che prima o poi si vendicherà del direttore
del manicomio, ci si sorprende a sperare
che il Cannibale raggiunga il suo scopo."
La versione cinematografica del romanzo
va
anche oltre, e quante saranno state
le persone
che non hanno sorriso di soddisfazione
quando,
nella scena finale, il dottor Lecter
dice:
"Ora devo andare, ho un amico
per cena".
L'amico è l'odioso e stupido direttore
del
manicomio e il sottinteso è che verrà
divorato.
In quel momento facciamo del cannibale
un
anti-eroe. Ma chi si ricorda la scena
di
sangue in cui Lecter strappa a morsi
la faccia
di una delle guardie? È lì che si prova
orrore,
quando ci viene sbattuta a morsi in
faccia
la realtà su simili comportamenti.
Incosciamente
e potenzialmente portati alla filosofia
del
cannibalismo, ci crogioliamo idealmente
al
pensiero di poter inglobare l'altro/a
per
amore, per acquisirne le doti, per
possesso,
per potere, per completezza, ma solo
quando
ci rendiamo conto di quel che vuol
dire strappare
la pelle e la carne di un essere umano,
proviamo
orrore.
E a proposito dell'orrore, scrive James
Alexander
nel suo On the Affect of Horror, in
Bulletin
of Philadelphia Association of Psychoanalysis,
(1972):
"L'orrore è un affetto strettamente
collegato all'angoscia... L'affetto
dell'orrore
viene suscitato da qualcosa di pericolosamente
minaccioso per la persona, ma che pare
anche
essere intriso delle qualità solenni,
misteriose
e spettrali che pertengono alla sfera
di
ciò che è strano, perturbante, inspiegabile,
avvolto nel mistero. La crudeltà disumana,
l'assenza disumana di qualunque sentimento
di solidarietà e di compassione, l'incapacità
totale di identificarsi in modo simpatetico
con qualcuno, sono le qualità caratteristiche
che suscitano l'affetto dell'orrore.
I lupi
mannari, i mostri alla Frankenstein,
i vampiri
e le streghe [o, come Stephen King
divide
le basi della letteratura dell'orrore
(in
Danse macabre 1981): Il Vampiro (Dracula),
Il Licantropo (Dottor Jekyll e Mr.
Hyde),
La Cosa Senza Nome (Frankenstein) ed
Il Fantasma
(Il Giro di Vite) n.d.r.], sono proiezioni
nel mondo esterno di fantasie sadiche
generatrici
di senso di colpa che prendono la forma
di
un mito."
Allora, cannibale e serial-killer sono
miti
del XX secolo.
Così come nel secolo scorso proliferava
tanta
letteratura di fantasmi, mostri e vampiri,
oggi il cannibale e il serial-killer
imperversano
nel cinema (Il Silenzio degli Innocenti
-
Henry, Pioggia di sangue - Seven),
nel fumetto
(The Eaters - alcune storie di Dylan
Dog),
nella paraletteratura (La Giusta Causa
-
Drago Rosso), nella musica (1. Outside
di
David Bowie), nella saggistica (Mindhunter
di John Douglas - I Serial Killers
di Marina
Garbesi), nel giornalismo di cronaca
(Jeffrey
Dahmer - Chikatilo).
Eccesso del fantasma: lo spirito maligno
della società cerca pace e vendetta.
Eccesso della Cosa Senza Nome: la follia
di voler ricomporre l'uomo non attraverso
la ricostruzione di un corpo mediante
l'assemblamento
di pezzi di carne, ma direttamente
attraverso
il loro ingerimento; un nuovo prometeo
che
cerca di possedere il segreto della
vita
annientando quella degli altri e seguendo
una oscura trama che giustificherebbe
una
serie di delitti come tessere di un
mosaico.
Eccesso del licantropismo: l'uomo mostra
il suo lato oscuro, il bene e il male,
il
tranquillo cittadino si rivela folle
omicida.
Eccesso del vampirismo: oltre il sangue,
la carne. Dopo esser penetrati nella
carne,
i denti si stringono a morsa e la strappano.
E noi abbiamo dunque orrore delle nostre
stesse inconsce fantasie sadiche e
ne proviamo
senso di colpa, riflettiamo questo
nostro
essere in miti dell'orrore e ci gratifichiamo
seguendone inorriditi, ma in qualche
modo
compiaciuti, le gesta immonde... scusate,
ma... "Ora devo andare, ho un
amico
per cena"...
Peter Milligan e Dean Ormston - THE EATERS
(part I e II) - in Il Corvo presenta n. 15
e 16 - General Press e Magic Press - Lit.
3.500 cadauno.
PAUL AUSTER'S CITY OF GLASS, È UN CASO CHE
QUI SI PARLI DEL CASO
quando il fumetto e' uno dei casi della
letteratura
di Smocovich Mauro
Si chiama Città di vetro di Paul Auster,
non è il suo vero nome. Questa pubblicazione
a fumetti è già l'espressione di uno
dei
casi possibili del romanzo Paul Auster's
City of glass, volume primo della The
New
York Trilogy, della quale fanno parte
anche
Ghosts vol. 2 e The Locked Room vol.
3. Questa
di cui, guarda il caso, vi parlerò
non è
la versione originale, non è propriamente
lui, il romanzo, ma è uno dei suoi
segni,
è la sua trasposizione a fumetti, nella
sceneggiatura
e l'adattamento (con Karasik) di David
Mazzucchelli,
nel disegno di Mazzucchelli (famoso
per Dare
Devil Born Again, Batman year one su
testi
di Frank Miller), nella traduzione
di Carlo
Oliva, e nell'ideazione di Art Spiegelman
(premio Pulitzer per Maus). Dice Quinn,
il
protagonista: "Nei gialli non
c'è una
frase, una parola che non abbia il
suo significato.
E anche se non lo ha, ne ha comunque
il potenziale."
L'indagine, che Quinn dovrà svolgere
in questa
storia, consiste nel pedinare un certo
Peter
Stillman che, uscito dal carcere dopo
13
anni, potrebbe aver intenzione di uccidere
il figlio, di nome Peter Stillman anch'egli.
Ma è un giallo, questa Città di vetro?
Rispetto
al giallo classico (analisi e deduzione),
si può parlare di anarchia del giallo,
è
il dominio del Caso. Se nel romanzo
La Promessa-Requiem
per un romanzo giallo di Durrenmatt,
l'autore
scardinava l'impianto del romanzo poliziesco
e mandava in frantumi la mente deduttiva
del commissario-protagonista mediante
l'intervento
del Caso, nella Città di vetro il Caso
appare
sin dall'inizio e perseguita tutta
la trama
("Molto più tardi avrebbe concluso
che
niente era reale... tranne il Caso").
Possiamo dire che il vero protagonista
sia
lui. Il Caso, dal latino (casus=caduta),
traduzione dal greco (ptosis=caduta).
Termine
derivato forse dalla metafora dei numeri
casuali che possono uscire facendo
cadere
dei dadi. In greco Ptosis (caduta)
era tradotto
anche con soggetto. Il soggetto è l'esempio
massimo del caso, perchè l'attenzione
alle
proposizioni assertorie portava a considerare
il soggetto come il caso per eccellenza.
Non esiste definizione semiotica del
soggetto
senza la sua relazione con l'oggetto,
e inversamente.
In altre parole, il soggetto non esiste
finchè
non ha relazioni con gli oggetti la
cui scelta
è affidata al caso. Il caso deriva
dalla
limitatezza della conoscenza dell'uomo.
Ciò
che si ignora sfugge al controllo ed
è caso.
Un evento è casuale quando il suo risultato
può dare luogo a diverse alternative
senza
che sia possibile prevederle. Frutti
del
caso sono quegli effetti di un'azione
che
non erano nè previsti nè necessari
per il
compimento del fine dell'azione stessa.
Quindi
caso come varie ipotesi di accadimento
non
più controllabili.
Caso come caso ablativo, caso accusativo,
caso dativo, ovvero le varie applicazioni
con il linguaggio che possono avere
i soggetti,
soggetti intesi come elementi che compiono
un'azione.
Caso come soggetto, ovvero il soggetto
trovandosi
a poter essere applicato in questa
varietà
di possibilità eè la massima espressione
del caso. Ovvero potenzialmnete racchiude
in sè tutte le possibili scelte e variazioni
che si possono fare e cambiare.
Caso, con la maiuscola inteso come Fato,
ovvero destino, non potendo più controllare
le possibilità di scelta si lascia perdere
la teoria delle possibilità che essendo infinite
non possono essere più controllate e ci si
affida a questa roulette, a questo gioco,
una dea bendata che sceglie per noi, quindi
una deresponsabilizzazione dalle proprie
scelte con un abbandono.
Caso infine può anche riallacciarsi
quindi
al Ptosis CADUTA, ovvero una spiegazione
un po' più religiosa, se vogliamo se
ci colleghiamo
alla caduta dell'essere umano dal paradiso
e quindi contemporaneamente, nell'accezione
più linguistica, la sua scissione dal
linguaggio,
e la scissione degli oggetti dalle
parole
che li caratterizzano. ed il loro significato.
E, nella storia della Città di vetro,
"tutto
cominciò con un numero sbagliato..."
(un numero di telefono fatto per caso...)
IL LUOGO: una New York che è il nessun
luogo
che Quinn si è costruito intorno. Dice
Quinn
"ovunque non sono, è il luogo
dove sono
me stesso", da Baudelaire "il
me
semble que je serais toujours bien
là où
je ne suis pas". Una New York
nella
quale i volti delle persone si confondono.
IL PERSONAGGIO: una triade di personalità
in ognuna delle quali il protagonista
non
si ritrova, non si sente e/o non è
sè stesso.
Quinn (il protagonista, scrittore di
romanzi
gialli), Wilson (lo pseudonimo usato
da Quinn
per scrivere), e Work (il personaggio
detective
dei libri di Quinn\Wilson). Una triade
che
accetta di svolgere il ruolo di una
quarta
personalità: l'Auster/investigatore.
L'AVVENIMENTO: un numero di telefono
sbagliato.
Qualcuno che telefona di notte a Quinn
cercando
l'investigatore Paul Auster. Dopo diversi
tentativi, Quinn accetterà di farsi
passare
per questo Auster (incontrerà poi nella
storia
il vero Paul Auster, unico esistente
nell'elenco
telefonico, di mestiere scrittore,
con una
famiglia uguale a quella che lui invece
ha
perso, un alter-ego? forse, ma non
è l'Auster
narratore della storia perchè questi
interverrà
alla fine). Sempre più chiaro,eh? In
questo
romanzo nessuno è sè stesso, tutti
sono qualcun
altro o, meglio, una delle proprie
espressioni.
Una delle varie espressioni che ci
danno
gli altri (Uno, nessuno e centomila
di Pirandello)
o uno dei vari contenuti che abbiamo
dentro
di noi (Una sola moltitudine di Pessoa).
Per farla breve, Quinn accetterà il
caso
propostogli da Peter Stillman figlio
(Mi
chiamo Peter Stillman, non è il mio
vero
nome), accetterà di essere Paul Auster
investigatore
("E lo scopo per cui fingeva di
essere
Paul Auster lo esentava dalla necessità
di
difendere la sua menzogna") Durante
le indagini, tutto deriverà dal Caso
("qualsiasi
cosa Quinn avesse fatto sarebbe stato
necessariamente
uno sbaglio, un arrendersi al Caso")
Peter Stillman ha un figlio di nome
Peter
Stillman. Stillman padre scrive un
libro
(Il giardino e la torre) una nuova
interpretazione
del Peccato originale basata sul Paradiso
perduto di Milton nella quale teorizza
un
recupero del linguaggio divino, il
linguaggio
dell'innocenza. Dopo la morte della
moglie,
impazzisce e rinchiude il figlio (di
due
anni) in una stanza per fargli recuperare
questo linguaggio. E' il 1960. Stillman
figlio
rimane lì per nove anni. Una sera,
forse
perchè Stillman padre tenta di bruciare
le
sue carte riconoscendo di avere fallito,
scoppia un incendio. I pompieri scoprono
e salvano il figlio. Il padre viene
riconosciuto
infermo di mente e rinchiuso per 13
anni.
Il figlio viene ricoverato 11 anni
in un
ospedale dove, aiutato da una terapista
della
parola, recupera l'articolazione del
linguaggio,
la sposa ed esce. P.S. padre manda
una lettera
di minaccia al figlio. Dopo aver scontato
la pena, Peter Stillman padre esce
di prigione.
Il figlio e la moglie del figlio telefonano
a Paul Auster investigatore per impedire
al padre di ucciderlo. L'unico Paul
Auster
che esiste a New York è uno scrittore.
La
telefonata arriva a Daniel Quinn per
sbaglio.
Questi è uno scrittore solo, non ha
più moglie
e figlio (non sappiamo se morti o allontanati),
che scrive con lo pseudonimo di William
Wilson.
Scrive gialli il cui protagonista è
un investigatore,
Max Work. Alla prima telefonata Quinn
spiega
di non essere Auster, alla seconda
non riesce
a rispondere in tempo, alla terza,
attesa,
accetta l'incarico. Il giorno dopo,
senza
neanche sapere l'indirizzo si reca
da P.S.
figlio. Questi, a modo suo, gli spiega
la
situazione, poi la moglie aggiunge
chiarimenti,
infine Quinn, ora Auster, si reca in
biblioteca
dove accquisisce ulteriori informazioni
sugli
scritti di P.S. padre. La moglie di
P.S.
gli dà un assegno a nome Auster. Quinn
acquista
un block notes sul quale annoterà,
la sera,
i primi appunti sul caso. Il giorno
dopo
Quinn si reca alla stazione, con una
vecchia
foto dovrà riconoscere e seguire P.S.
padre.
In cambio di una offerta per lac ausa
dei
sordomuti un ragazzo gli dà una penna.
Nella
sala d'attesa Quinn discute con una
ragazza
di ciò che legge: un libro di William
Wilson.
Arriva Stillman, Quinn lo inizia a
seguire
quando ad un tratto sembra che P.S.
si sdoppi.
Indeciso, Quinn segue il più vecchio
e malandato
ben sapendo che qualunque scelta avesse
fatto
avrebbe sbagliato, sarebbe stato un
arrendersi
al caso. Per due settimane Quinn si
apposta
di fronte all'albergo nel quale alloggia
P.S. padre e lo segue. Prima velocemente,
dal quarto giorno in poi allo stesso
ritmo
del pedinato. Questi raccoglie oggetti
dalla
strada e prende appunti. Ricostruendo
i tragitti
Quinn scopre che il seguito sta tracciando
uno scritto: The tower of babel. Decide
di
avvivcinarlo. Lo farà per tre volte
ed ogni
volta si presenterà con un nome diverso,
vestirà una espressione diversa.
1) La prima volta si presenterà come Quinn
per non svelare l'identità di investigatore/Auster
(per nascondere una identità fittizia si
presenterà con l'identità reale) e Stillman
gli rivelerà il suo ruolo: dare dei nomi
alle cose in pezzi "quando le cose erano
integre, le nostre parole potevano esprimerle.
Ma le cose sono andate in pezzi e le nostre
parole non si sono adeguate". P.S. gli spiega
che sta inventando una nuova lingua dando
agli oggetti senza nome (ombrelli rotti,
teste di bambole etc.) un proprio nome visto
che non sono comunque più adatti a portare
il precedente nome affidatogli dagli uomini.
2) La seconda volta vestirà i panni di Henry
Dark, teorico a cui Stillman padre si rifaceva
per la sua teoria e scrittore dell'opuscolo
"La nuova Babele", in cui Dark sosteneva
si dovesse costruire in America un nuovo
Paradiso ("che non era un luogo, ma qualcosa
di immanente nell'uomo in sè"); P.S. gli
spiega che è impossibile, almeno essere QUELL'Henry
Dark, perchè era lui sotto pseudonimo e le
iniziali di Henry Dark, H.D. alludono a Humpty
Dumpty. Gli spiega poi una teoria sull'uovo
citndo anche Humpty Dumpty dell'Alice nel
paese delle meraviglie. L'uovo della favola
di Alice in Wonderland. "Cos'è l'uovo?"-È
Stillman padre che parla-"Non è neanche nato,
eppure vive. Tutti gli uomini sono uova,
non hanno ancora raggiunto la forma destinata.
L'uomo è una creatura della caduta: come
Humpty Dumpty". Uovo come incarnazione più
pura della condizione umana e della sua caduta.
Il problema non è se si può dare ad una parola
il significato che si vuole, il problema
è chi comanda.
3) La terza volta Quinn/Auster si presenta
come Peter Stillman figlio e Stillman padre
ne è orgoglioso ("I bambini sono una grande
benedizione ..... la più grande dopo la morte.
E quando moriamo c'è sempre qualcuno pronto
a prendere il nostro posto."). Stillman padre
scomparirà l'indomani. Quinn/Auster perderà
il caso (l'incarico), scomparirà il cliente,
scompariranno i soldi, la casa, l'indagato.
Quinn/Auster rimarrà con sè stesso alla ricerca
di un linguaggio.
Il giorno dopo si butta da un ponte e Quinn,
recatosi in albergo, non lo trova. Avverte
il figlio e la moglie del figlio. Poi cerca
Auster investigatore per avere il parere
di un espertto, trova un solo nome e si reca
all'indirizzo riportato. L'Auster che trova
si presenta come scrittore. Quinn gli dà
l'assegno e gli spiega le cose. Poi Auster
parla del lavoro a cui si sta dedicando.
In casa Auster, Quinn incontra la moglie
e il figlio di Auster e ne soffre perchè
gli ricordano i suoi cari perduti. Il figlio
di Auster si chiama Daniel come Quinn. Questi
fugge via, da quel momento non riceverà più
risposte al telefono da parte di P.S. figlio
e moglie. Il giorno dopo vagherà per New
York poi deciderà di appostarsi davanti alla
casa dei due. Passerà un tempo indefinito.
Quinn diventa un barbone sempre appostato
lì. Verso la metà di agosto decide di alzarsi.
Va al parco e dorme. Telefona ad Auster che
gli nega i soldi dell'assegno dicendo di
non averlo potuto incassare. Torna a casa
e vi trova la ragazza della stazione che
lo caccia di casa in qualità di nuova inquilina.
Quinn va a casa di P.S. figlio e moglie,
trova la porta aperta ed entra. Si spoglia
e comincia a tenere appunti su qualsiasi
impressione. Finito il block notes scomparirà,
chiuso in una stanza, nudo, perchè butterà
infine tutte le vesti indossate fino ad allora,
si ciberà di un cibo che comparirà dal nulla
("il senso che qui si produce... è quello
di ciò che tendiamo a considerare "non sensuale"
per eccellenza: la mente, il ragionamento
razionale. Il processo si supera solo ricompiendosi
all'infinito, la morte si vince morendo di
nuovo e più rapidamente rinascendo, in un'istantaneità...
che concentra il tempo nell'unico spazio
della camera". Enrico Ghezzi a proposito
del finale di 2001: Odissea nello spazio),
scriverà sul suo quaderno con una penna ricevuta
da un ragazzo alla stazione in cambio di
una offerta per la causa dei sordomuti, per
insegnar loro a comunicare, scriverà alla
luce naturale, senza ricorrere all'elettricità,
scriverà di riflessioni sulle questioni marginali
del "caso Stillman" ("Erano tante le cose
che stavano sparendo e non era facile seguirle
tutte"). E quando finirà il quaderno, le
parole non potranno più essere esternate
e scomparirà anche Quinn. Implosione del
ragionamento. "Le informazioni disponibili
si fanno insufficienti"- Interviene un ulteriore
personaggio, l'Autore stesso, il vero(?)
-"Quanto a Quinn, è impossibile sapere dove
sia, ormai. Il quaderno, naturalmente, racconta
solo metà della storia".
Un'immagine ci presenta il quaderno che brucia,
tra gli oggetti a pezzi ai quali Stillman
padre voleva dare un nome, forse perchè il
fuoco è il principio dell'universo, si trasforma
in tutte le cose e tutte le cose tornano
a lui. Il soffio vitale che pervade il tutto
e che è ragione dell'ordine universale (Logos
sta a significare parola, discorso, ragione.
Eraclito designa come logos il principio
vitale della realtà, il quale è fuoco e ragione
insieme).
PAUL AUSTER, Il narratore torna dall'Africa,
parla con Paul Auster scrittore personaggio
ed insieme si recano nella stanzetta dove
Quinn ha passato gli ultimi giorni. Trovano
il block notes. Il narratore rompe l'amicizia
con Paul Auster ritenendo che questi si sia
comportato male e ci racconta tutta la storia
firmando il racconto Paul Auster's City of
Glass.
La fabula non corrisponde all'intreccio perchè
ci sono diverse analessi. Tutta la storia
è raccontata da un narratore che si attiene
al block notes di Quinn. La storia inizia
con le telefonate a Quinn. Quinn accetta
l'incarico e poi ricostruisce la storia degli
Stillman. Prima ascoltando Stillman figlio.
Poi la moglie. Poi documentandosi in biblioteca.
Pedinerà successivamente Stillman padre e,
avvicinandolo ricostruirà altri pezzi del
mosaico.
Una storia che vi catturerà, scorrerà ininterrottamente,
ma da leggere più di una volta, intensa.
Diceva Calvino: I classici sono quelle opere
che non smettono mai di dire ciò che hanno
da dire. Non so se quest'opera diventerà
un classico, ma sicuramente non smetterà
mai di parlarvi. Come diceva Hugo Pratt:
il fumetto è letteratura per immagini. Può
essere buona o cattiva, ma è letteratura.
E qui finisce questo mio intervento casuale
che per caso ha cercato di dire qualcosa.
Il caso deriva dalla limitatezza della conoscenza
dell'uomo. Ciò che si ignora sfugge al controllo
ed è caso. Sicuramente non ho detto tutto.
E sicuramente, ho detto qualche stupidaggine
ma, capite, sono soltanto parole. Che avete
appena letto forse proprio per caso.
Città di vetro di Paul Auster:
fumetto: I Grandi Tascabili-Gli Squali Bompiani
Lit. 15.000
romanzo: Anabasi - Trad. di D. Verzoli Lit.
25.000
nella TRILOGIA DI NEW YORK (Città di vetro
- Fantasmi - La stanza chiusa) - Einaudi
- settembre 1996 - Lit. 30.000 - trad. di
Massimo Bocchiola
IL GIARDINO E LA TORRE:
Nell'Eden non esistono il bene e il male.
Adamo ha il compito di inventare il linguaggio,
nella sua innocenza la parola rivela l'essenza
delle cose, dopo il peccato i nomi si staccano
dalle cose.
Avviene il Diluvio universale.
Dopo 340 anni viene costruita la Torre di
Babele per non disperdersi su tutta la superficie
della terra. Si contraddice il mandato "andate
e moltiplicatevi, popolate la terra". La
torre viene distrutta ed avviene una nuova
frammentazione del linguaggio.
Milton scrive il Paradiso perduto. Henry
Dark, personaggio inventato da Peter Stillman
per rendere verosimile la teoria, è il segretario
di Milton. Milton muore. Dark va in America
e scrive La nuova Babele, un opuscolo che
sostiene: bisogna ricostruire il nuovo paradiso
in America. Bisogna che l'uomo impari il
linguaggio di Dio, il linguaggio originario
dell'innocenza, per annullare la caduta del
linguaggio e quindi dell'uomo. Ubbidendo
al comando di Dio di popolare la terra, i
coloni inglesi non hanno potuto che spostarsi
verso occidente, l'America. Una volta popolato
quel continente non ci sarebbe più nessun
ostacolo alla costruzione della Nuova Babele.
Si potrebbe tornare a parlare un solo linguaggio.
340 anni dopo la Mayflower (1960), come 340
anni dopo il Diluvio, si sarebbe potuta costruire
la torre. Nella torre ci sarebbe stata una
stanza per ogni persona nella quale, una
volta entrati, ci si sarebbe dimenticati
di tutto ciò che si sapeva e dopo 40 giorni
e notti si sarebbe parlato il linguaggio
di Dio.
SAGGIO SUL DON CHISCIOTTE:
La sua teoria è che Don chisciotte abbia
organizzato tutti i passaggi del testo. Ha
fatto in modo che Sancho Panza raccontasse
tutto al barbiere e al curato che hanno scritto
la storia. Poi l'hanno tradotta in arabo.
Cervantes ha trovato il manoscritto e l'ha
fatto ritradurre in spagnolo (da un Don Chisciotte
travestito) con l'idea di farla leggere a
D.C. per fargli rivivere le proprie avventure
ed uscire dalla follia. In realtà l'opera
è una polemica contro l'immaginazione. D.C.
voleva vedere in che misura gli uomini sono
in grado di accettare qualsiasi assurdità
purchè siano divertenti.